Start website main content

  • Istituto DIRPOLIS

Covid-19, la riflessione di Barbara Henry, docente di filosofia politica alla Scuola Sant’Anna, dopo la sua partecipazione al FestivalFilosofia: “Con la pandemia abbiamo vissuto il conflitto tra libertà e sicurezza”

Publication date: 25.09.2020
Image for barbara-henry.jpg
Back to Sant'Anna Magazine

“In questi mesi abbiamo vissuto nella nostra carne il conflitto tra liberta’ e sicurezza. Dovremmo imparare da questo lockdown a riprendere il confronto tra ‘radicali libertari’ e ‘securitari’ e ricordare la distinzione tra l’uso pubblico della ragione e quello privato”. Commenta così all’agenzia di stampa DIRE, con questa attenzione al presente e all’attualità, Barbara Henry, docente di Filosofia Politica all’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna, la scelta del Comitato scientifico del FestivalFilosofia a Modena e a Sassuolo - che l’ha vista tra le protagoniste dell’edizione di settembre 2020 - di dedicare la prossima edizione alla libertà.

“Sarà un festival filosofico di tipo politico, morale e giuridico”, ha detto Barbara Henry, ricordando come il trauma della pandemia abbia reso evidente che “dovremmo tenere a mente la capacità di distinguere quando obbedire e quando criticare, quando seguire Socrate e quando, a maggior ragione, seguire la distinzione di Kant, fra uso pubblico e uso privato della ragione. Non basta inveire, istigare a trasgredire la legge e strapparsi la mascherina- ha aggiunto la filosofa- perché la libertà è anche responsabilità politica, vi sono le ricadute collettive dei propri comportamenti di cui tener conto”. 

L’appello della filosofa è di ripartire da quanto accaduto in questi mesi, con l’impatto catastrofico del virus Covid-19, per trovare “una nuova strada”. E la sfida del “nuovo”, senza riproporre stereotipati dualismi, è elemento costitutivo del pensiero di Barbara Henry che nella tre giorni appena conclusa del FestivalFilosofia ha portato una lezione magistrale tutta dedicata alla Postumanita’. Tra potenziamento e distopie, in cui sono state ridimensionate alcune delle paure per il “nuovo” e per l’apporto migliorativo della tecnica, delle “macchine”, cui era appunto dedicata l’edizione. “I potenziamenti meccatronici (meccanici ed elettronici) sono pienamente inscritti nella cornice postumana in quanto misure ibridizzanti l’umano con il macchinico mediante protesi. Pertanto, è necessario adottare per così dire una ‘terapia’ socio-culturale postumanista contro la ‘fobia da contatto’ con il macchinico, che sia al contempo equilibrata, vigile e sensibile a tutti i valori (morali, politici, sociali, culturali, ecc.) e fattori, individuali e collettivi, in gioco”.

“E’ peraltro discutibile e superata – ha detto ancora Barbara Henry - la distinzione tra terapia e potenziamento umano in cui si accolga la prima e si rifiuti pregiudizialmente la seconda, come è superata l’idea della ‘normalità’ che si pensi di poter reintegrare. La stessa terapia è diventata un poco alla volta potenziamento. Che vuol dire del resto ‘andare oltre lo standard?’, “ha sottolineato ancora, ricordando che proprio “definire normalità e standard di partenza è questione problematica da quando c’è la tecnica, ossia da quando esistiamo come specie sul pianeta”. Quanti ripropongono il dualismo tra riparazione terapeutica e potenziamento dell’umano, mettendo pregiudizialmente un limite etico (e non di altro tipo) alla tecnica e alle sue applicazioni, “nascondono” lo stato delle cose, secondo Henry, dando erroneamente per scontato “che lo standard della condizione umana sia un dato di fatto. Si tratta di un essenzialismo non dichiarato che in questo modo aiuta chi vi si riconosce a nascondere ‘il’ problema di fondo, ossia che vi sono – fortunatamente, per amore del pluralismo – dissidi di fondo, grandi e piccoli, su cosa sia lo standard e sul perché, nel caso, lo si debba accettare”. L’appello di Barbara Henery è quindi a saper guardare avanti, a non avere paura nel ridefinire radicalmente la “centralità dell’umano in una chiave non più biologistica“. Siamo già ibridi, basta pensare alle protesi “che non sono più gli arti inerti di un tempo, ma hanno una complessità biotecnologica che interagisce ricorsivamente sull’intero individuo e sulla sua identità”.

Se lo standard si ridefinisce continuamente, se le scienze mediche, e non solo, “cercano validità e si ridiscutono” allora “non bisogna demonizzare per partito preso ogni forma di potenziamento in quanto ibridazione o contaminazione con ‘altro da se”. La terapia – da quella protesica/riabilitativa a quella farmacologica – quanto più è sofisticata, tanto più è potenziante, ed è sempre più incline a superare lo standard”. Il contesto ha cambiato il concetto di cura: “Tutti/e vogliono, tendenzialmente, stare sempre meglio, la cura non è più soltanto la ‘toppa’ riparatrice. E’ cambiato il rapporto tra malattia e societa’, per non parlare delle diverse modalità con cui tale nesso si manifesta in contesti culturali e geografici eterogenei e lontani”. Per questo secondo Barbara Henry tra chi cerca il potenziamento dell’umano e chi ne ha paura c’è di mezzo il tempo, nelle sue tre dimensioni, in particolare la distanza rispetto al futuro, e il bisogno di “superare la fobia del macchinico” o dell’ibridità: temi, a guardar bene, come ha ricordato nella sua lezione, già presenti nel passato remoto dell’umanità, o nel presente, in Estremo Oriente, ad esempio in certi aspetti dello Shintoismo, che rinnova costantemente le proprie radici animistiche a confronto con le sfide robotiche.